giovedì, ottobre 27, 2005

Versione collage da "Lettere a Milena" di F.K.




Ma perché sono un uomo con tutti i tormenti di questo stato quanto mai oscuro e orrendamente pieno di responsabilità?
Perché non sono, ad esempio, il felice armadio nella tua camera che ti può guardare in faccia quando stai sulla sedia a sdraio o alla scrivania, o ti metti a letto o dormi (sia benedetto il tuo sonno!) . Perché non lo sono?
E parlare con te notte e giorno, con quei motti di scherzo e di serietà, con i tuoi sorrisi seri! D’altronde non devi dimenticare che è facile distinguere lo scherzo dalla serietà, ma nelle persone talmente importanti che da ciò dipende la loro vita non è invece facile, il rischio è più grande, gli occhi diventano acuti come un microscopio e quando si arriva a tal punto non ci si raccapezza più. A dire il vero, scriviamo sempre la stessa cosa. Prima ti domando io se sei ammalata e poi ne scrivi tu, un’altra volta voglio morire io e poi tu , una volta voglio piangere davanti a te come un ragazzino e poi tu davanti a me come una bambina. E una volta e dieci volte e mille volte e sempre voglio essere presso di te, e anche tu lo dici. Basta, basta.
E ancora non ho una lettera che mi spieghi che cosa ha detto il medico, oh donna lenta, donna pericolosa, oh cattiva scrittrice di lettere, oh malvagia, oh cara, oh – ebbene, che cosa ancora? Niente , stare quieto nel tuo grembo.
E pretendi pure che io dorma? Perché non abbiamo utilizzato meglio il nostro tempo a Vienna? Perché non siamo rimasti, per esempio, sempre nel negozio del cartolaio dov’era pur bello e noi eravamo tanto vicini. E pretendi pure che io dorma? Non dormire significa domandare; se uno avesse la risposta, dormirebbe.
E così ci siamo del tutto separati e si direbbe che con tutte le forze abbiamo in comune un solo desiderio: che tu sia qui e il tuo viso mi sia possibilmente vicino. S’intende, abbiamo in comune anche il desiderio di morire, il desiderio di questa “morte comoda”, ma a guardar bene questo è già un desiderio da bambini, all’incirca come nell’ora di aritmetica, quando vedevo lassù il professore scartabellare il taccuino e cercare probabilmente il mio nome e confrontavo con quella visione di forza, di terrore e realtà la mia inconcepibile assenza di cognizioni, mi auguravo, trasognato per l’angoscia, di potermi alzare come uno spettro, di passare come uno spettro tra i banchi, di volare davanti al professore, leggero come la mia scienza matematica, di attraversare in qualche modo la porta, di raccogliermi là fuori e di esser libero all’aria buona che in tutto il mondo a me noto non conteneva tante tensioni come in quell’aula. Ecco, così sarebbe stato “comodo”. MA non avveniva. Ero invece chiamato, ricevevo un quesito, per risolverlo occorrevano le tavole dei logaritmi, le avevo dimenticate, ma mentivo dicendo che le avevo lasciate nel banco, ero rimandato a posto a prenderle, notavo con un terrore che non era neanche finto che non c’erano e il professore mi diceva :”Pezzo d’asino!”. Pigliavo un insufficiente e , a rigore, era un bene perché lo prendevo soltanto formalmente e anche ingiustamente (avevo bensì mentito, ma nessuno me lo poteva dimostrare, è forse ingiusto?) e soprattutto non avevo dovuto dar prova della mia spudorata ignoranza.
Dunque, in complesso, anche in questo era molto “comodo” e in favorevoli circostanze potevo persino “scomparire” nell’aula e le possibilità erano infinite e anche in vita potevo “morire”.
Non posso, non so come, scrivere altro se non ciò che riguarda noi, noi nell’affollamento di questo mondo, soltanto noi. Tutto il resto mi è estraneo. Ingiusto! Ingiusto! Ma le labbra balbettano e il viso posa nel tuo grembo.
O il mondo è piccolissimo o noi siamo giganteschi, in ogni caso lo empiamo completamente.

di Amanteo



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